Alfredo Grilli: da Chiusaforte al Nevèa





Comunemente, quando si è giunti in un paese sconosciuto, alla guida che vi accompagna, o agli ospiti che vi accolgono si domandano con una certa premura le notizie storiche del luogo. A Chiusaforte, io non feci così....
Che il paese fosse già probabilmente occupato all’epoca romana, magari per render munito il confine e la strada; che i patriarchi di Aquileia ne assicurassero poi il fortilizio per ragione di difesa politica e militare, e a meglio facilitare l’esazione della gabella; che la rocca fosse restaurata in vari periodi di tempo, e avesse parte gloriosa in molte tra le vicende di guerra del Friuli, e respingesse più volte gli attacchi tedeschi, finché questi, padroni del Veneto, non ne ordinarono la demolizione totale, eran nozioni di storia che dovevano certo importarmi e spingermi a richieste. Eppure, come io fui smontato dal treno ed ebbi scambiati i saluti e i convenevoli con gli amici, m’informai subito di due cose, d’indole non strettamente storica: se frequenti e dannose fossero le piene del Fella, e se in paese dominassero ancora i topi! Né forse erano ingiustificate del tutto le mie domande. Nello sfogliare, durante il viaggio notturno, la guida, due notizie sopra tutte mi si fermarono nella mente intorpidita pel sonno. Come cioè il Canal del Ferro fosse tristemente celebre per memorabili e formidabili piene, di cui terribile quella del 1851, che rovinò ponti, ruppe dighe, cagionò frane e scoscendimenti, abbatté ed asportò case, chiese, canoniche, cimiteri. Come infine, per quanto sembri leggenda di secoli fa, comparissero in paese miriadi di topi, i quali divoravano tutte le messi e rosicchiavano perfin le persone; flagello di nuovo genere, da cui liberarono il borgo gli scongiuri di un famoso benedettino di Moggio. I miei ospiti mi guardarono in faccia meravigliati, e risero solo quand’ebbi spiegata la cosa. Quanto a me, se anche avessi avuto paura, mi rassicurava per la piena, in quel mattino d’agosto, la chiarezza perlacea del cielo che rideva sulle pareti nere dei monti; e per i topi, più che gli scongiuri del benedettino di Moggio, l’aspetto pulito e quasi elegante del paese. Del quale niente è forse più storico del nome, mentre poche sono le tracce visibili del passato: qualche lapide commemorativa, qualche segno di muratura del fortilizio, qualche vestigio di dominio antico. Sul colle Moresch, a Campolaro, la nuova chiesa parrocchiale tra alberi frondosi sta come a proteggere con la sua torre campanaria le case e gli alberghi lungo la Strada d’Italia. Nei mesi più caldi d’estate, dolce vivere qui in oblio di sé stessi e del mondo: mite la temperatura, consolante la brezza di monte e di valle, amenissimo il panorama, gioviale la colonia de’ forestieri, che giuocano e cantano e ballano, magari sulla strada, come ne’ tempi antichi,

Quando le donne gentili danzavano in piazza.

Vita di quiete e di tranquillità; giacché, come ho detto, neppure vi si affacciano agli occhi vagabondi forme del passato, né la mente si affatica nell’indagine dell’antico. Delle lapidi commemorative, quelle che non vennero travolte dalle piene sono state murate negli orti delle case o sui pavimenti delle cucine, lungi agli occhi profani; e i materiali del fortilizio demolito servirono a costruzioni private. Girando per il paese, non mi fu dato scorgere che un leone veneto in bassorilievo su una fontana a piè del colle della parrocchia, e dalla parte opposta del borgo una casa d’aspetto vetusto con questi versi incisi:

La Chiusa e le Alpi chiudono i confini
De la famosa Italia, ma non ponno
Chiuder l’honor del saggio Contarini.

Che facesse il saggio di cui così iperbolica mente si celebra l’onore, non mi fu possibile sapere. Certo, io avrei amato meglio trovar cenno di quel capitano venzonese Antonio Bidernuccio, che con quaranta scoppiettieri suoi concittadini, nella fortezza di Chiusa, resistette ai numerosi imperiali del duca di Brunswich, discesi contro Venezia nel luglio 1509. E fu allora che tra i monti del Canale echeggiò il famoso grido di rivolta:

Su, su, su, Venzon, Venzone,
Su, fedeli e bon Forlani,
Su, legitimi italiani,
Fate che il mondo risone
Di gridar Venzon, Venzone.

Ma lasciamo oramai la storia agli storici, e le medaglie e i bronzi e gli oggetti ed utensili e i numi consolari ed imperiali ai numismatici e agli archeologi. Traversiamo il ponte nuovo sul Fella ancora in costruzione e senza parapetti, sicché nell’ora antelucana andiamo esitanti e timorosi. Sono le quattro del mattino. La luna d’agosto è menomante, e guarda da ponente; luccica sulle acque sfruscianti pel greto sbiancato. Attorno è l’orrore nero delle montagne. Tutta la vita dorme. Dorme Chiusaforte al di là del Fella, dorme la borgata di Raccolana al di qua. Solo le acque vigilano rotolanti tra le rocce e i detriti, unica voce delle Alpi, quando il vento non romba. Tendete l’orecchio: uno strepito lungo di corrente fluviale, il murmure loquace di un ruscello, il fruscio precipite di una cascatella, il gorgoglio di una fontana, il gemitio lento d’un’acqua di polla. Un dirompersi, un fiottare, un lambire, uno strosciare; tutto il poema sonante dell’acqua: symphonialis unda. Questa la musica che ci accompagna, o vicina o lontana, o nel baratro o dai monti, su su, da Raccolana al Nevèa. Oltrepassata già da qualche tempo la chiesuola di S. Floriano, che D’Andrea Piusso fece erigere nel 1709 per sua devozione e a maggior gloria di Dio, il cielo comincia a schiarire, e i culmini alpini a profilarsi. Mi risovvengo di una strofetta agilissima di un poeta vernacolo friulano, osservatore arguto e mirabile artista, Pietro Zorutti, i cui versi, al dir del Tommaseo, veramente “volano in aperto sereno”

L’albe è vicine.
Ah, ce’ matine!
Cussì serene,
E cussi pure.
Le lune plene.
Flors e verdure;
E ’ste ariete....
Ah, benedete!

Data la stura ai versi dialettali, i miei compagni di viaggio cominciano con le villotte friulane. Sono di una dolcezza melanconica che affascina, e nel riso e nel pianto vi trema la voce più dolce e gentile dell’anima paesana, con una mollezza tale e con tali carezzosi abbandoni, che sembrano contrastare con il carattere schivo e serio dei friulani, rozzo e freddo in apparenza. Ecco un’aria affettuosa e grave, profondamente vera, che già, nella marcia silenziosa dei Mille, Giuseppe Cesare Abba ascoltò diffondersi per la notte:

La rosade da la sera
Bagna el flôr del sentiment,
La rosade da mattine
Bagna el flôr del pentiment.


Quest’altre villotte che seguono sono proprio, come si dice, canaglese, con tutte cioè le caratteristiche della parlata del Canal del Ferro:

Che biel là (andare) su l’ore brune
Par chei pràts a tintinà (scampanellare)
E la gnôt al clàr di lune
Sot i cops a morosa.


Il canto è dolcemente sentimentale e idilliaco; originale invece, e senza dubbio consentaneo ai luoghi, ci sembra, nei versi che seguono, il pensiero di quell’amatore, che ha girato per la Carnia e lungo tutto il Fella per trovarsi una fanciulla che ben lo riscaldi d’inverno:

Hai ziràt dute la Chargne
E anghimò chanàl dal Fièr,
Par chatami une moròse
Che mi sehaldi chest unvièr.
Oh ce freid ch’al ven a Sclùse,
Oh ce ajar, ce Garbin!
I fantaz di cheste vile
Son colòr di lat e vin.


Dopo i canti popo1ari sarebbero da ricordare le tradizioni, le usanze, i costumi, specialmente nelle funzioni religiose, nei matrimoni, nei funerali. Per questi ultimi curioso è quanto scrive il Marinelli:«Dalle borgate situate sui dossi più elevati e con viottoli poco comodi il morto si porta abbasso od in una gerla, od in un lenzuolo, i di cui lembi estremi s’allacciano sul davanti del petto di un uomo forte e tarchiato, o finalmente appendendo il lenzuolo ad una stanga che si porta poi da due robusti montanari fino appiedi della discesa». In questo modo si svolgono le cerimonie e le pompe funebri sui sentieri dell’alta montagna! Ben più originali sono le usanze di Resia. I resiani, che vivi ancor conservano credenze ed usi della razza slava, sono caratteristici per la foggia del vestire, per certi istinti, di vita nomade, per la passione del ballo, per l’indole superstiziosa, per singolarità tutte paesane nelle cerimonie nuziali, nei puerperii, nei battesimi, nei mortorii. Innumerevoli poi le leggende e le superstizioni. Potrebbero infatti trovar sede più adatta allo sbizzarrirsi dell’accesa fantasia popolare? Quivi deserte solitudini, dominate da tormente formidabili. Campi turbinosi di neve, e ghiacciai eterni, forre e anfratti profondi, urlar di valanghe e rombar di venti. Sulle dentate cime inaccessibili gemono i dannati con squasso di catene e voci stridule e rauche di demoni; passeggiano sulle creste spaventevoli spiriti di morti o sbucano dalle voragini, e vagano ombre e fantasmi con pianti e lamenti lunghissimi, quando più, nelle notti invernali, imperversa la bufera!

Ma bando ora alle fantasie del terrore.

Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe.

Tutta la montagna trionfa nel suo manto di verde, umido di rugiada mattutina. Il sole già sorto non ancor si mostra ai balconi aerei. Il murmure perenne dell’acqua e dell’aria ci accompagna come una sinfonia larghissima. Raccontando e fantasticando, abbiamo già guadagnato della costa. Dal ponte Curite a quello delle Lastre la via è ancor meglio carreggiabile e piana e conservata; e a metà strada, tra i due ponti sulla riva sinistra del torrente, è la bella cascata di Repepeit. Ormai convien far l’orecchio a questi nomi strani unici superstiti a denotare tracce di genti slave in queste valli, mentre le poche costumanze ancor vive e qualche tipo etnico cedono sempre più all’elemento friulano, nomi curiosi, monchi ed irsuti, che nelle loro elisioni, nelle loro sincopi, col predominio della consonante in fin di parola, arieggiano all’asprissima e rude nostra parlata romagnola: Pecceit, Ciut Michel, Patoc, Sotmedons, Ciut dai Umin, Ciut Cali. Sono piccoli casali e borgatelle d’aspetto miserabile, a destra e a sinistra del Raccolana, sui ripiani dei terrazzi glaciali o alluvionali antichi o recenti. Sembrano disabitati, tanto la stretta è silenziosa e rare sono le persone che s’incontrano. Infatti gli uomini, pacifici e laboriosi, emigrano, e le donne rimangono sole alla coltivazione dei campicelli, che nei bacini calcarei del Raccolana producono specialmente granturco, fagioli, patate, e le donne stesse servono anche al trasporto dei fieni e dei prodotti secondari dei boschi. Poche ne vidi e tutte invecchiate, spesso anzi tempo, nella fatica, aduste e segaligne. Con ai piedi certe babbucce di panno per non scivolare sulle rocce, e sulla schiena gibbuta gerle piene di tutto il necessario, dal fieno al bariletto di birra, sono, direi quasi, i cammelli o i giumenti dell’alta montagna. Una vecchia di quasi ottant’anni faceva servizio di provvigioni da Chiusaforte al Nevèa, con una disinvoltura invidiabile, così pian piano, come un automa:«un pas davour l’altri, si rive a Rome» ci disse. Povera vecchia! Anch’ella dunque conosceva il proverbio che è di tutta Italia e forse anche di fuori; il proverbio che è popolare, come universale è il culto della città eterna. Un passo dopo l’altro si arriva a Roma, a Roma grande, dove si va per tutte strade. Ma che sapeva ella mai di Roma, se non forse quanto Aligi ne La Figlia di Jorio, che quivi cioè va

a pigliar perdonanza dal Vicario,
dal Vicario di Cristo Signor Nostro,
perché quegli è il Pastore dei Pastori?


Come si figurava ella, se pur sapeva, la cupola di S. Pietro? Forse come il cupolone di ghiaccio delle sue Alpi? Un altro gruppo di donne con in mano la falce fienaia, sedute su per un pendio erboso quasi a picco sulla profondità del torrente, stava muto a guardarci. Nessuna mai io sentii cantare, nessuna voce spiegata. Sembrano oppresse dalla solennità grave del luogo, come strani esseri votati al silenzio. Chi dunque canta quassù le graziose villotte friulane?

A monte di Saletto, una discreta borgatella con chiesa e scuola e osteria, come a dire il capoluogo della stretta, la via si perde nella foresta. Gli abeti,i faggi, i pini, i larici, le betulle s’incurvano a padiglione sul sentiero, proteggendoci dai raggi del sole. Tutto il bosco odora di ciclamini che spuntano, orecchiuti come leprotti, tra i detriti e i sassi, tra il muschio, la borraccina e il lichene, tra la sodaglia che infoltisce sempre più; un profumo inebriante come di liquore. Se ascoltate, tutta l’aria trema; sono insetti di forme strane e leggiadre adorni di colori splendidi, sotto le foglie, tra i sassi, nelle screpolature dei tronchi, a volo per l’aria: un fruscio di elitre dure, coriacee, un ronzio d’ali membranacee e squamose; un appinzare, un rodere, un brulicare, uno stridere, un ronzare, un frinire. Poi uno strisciar di rettili tra il frascame, una romba di volo e un rumore stridulo di grossi uccelli sulle conifere. Ma quello che sale ancora laggiù dalla profondità del bosco, perché nella dolce stagione ama la luce dei vespri, è il sereno gorgheggio del tordo musico, l’usignolo delle Alpi:

Sei tu, che nelle odorose foreste
Dei pini antichi, e sotto il tetto fosco
Degli alti abeti, dalle fronde inteste,
Sei tu, sei tu, dolce usignol del bosco,
Nella grata agli amanti ombra discreta,
Sei tu che ognor gorgheggi,
E la soave nota all’aura queta
Fai che più dolce echeggi.

La molteplice poesia del luogo ci vince. Ci disperdiamo pel bosco alla ricerca di fragole, di mirtillo, di lamponi, di nocciole; al saccheggio di ciclamini, di rododendri, di ranuncoli, di margherite; di tutte le erbe profumate e sempre verdi della montagna; le donne se ne incoronano la testa, noi ne leghiamo manipoli attorno all’alpenstock, e lo agitiamo come un tirso bacchico. Intanto è scomparsa sulla montagna ogni traccia di caseggiati, di chiese, di capanne. Abbiamo oltrepassato Tamarozz, Pian di qua e Pian di là, Pian della Sega e Val de l’Aghe! Lasciammo nel fondo del torrente le segherie idrauliche, dove vedemmo ridotto in tavole e squadrato il legname; ci giunge appena, ascoltando, il frusciar della stupenda e pittoresca cascata di Goriuda. Siamo già nelle alte regioni; la strada mulattiera cede troppo spesso al sentiero; il torrente si rinserra rumoroso in una forra assai pittoresca e incassata. Ecco le Scaturigini del Raccolana, lì, sotto il Mostiz, il circo vasto e nudo e tetro di rocce, il cui orlo superiore è costituito dall’altipiano di Nevèa. E qui, opportuni, se è lecito paragonare le cose grandi alle piccole, mi tornano in mente i versi del Carducci al Cadore: chè anche questi luoghi invero meriterebbero il canto di un poeta:

Non te, Cadore, io canto su l’arcade avena che segua
de l’aure e l’acque il murmure:
te con l’eroico verso che segua il tuon de’ fucili
giù per le valli io celebro.


Noi moviamo lentamente per una strada militare. Dal borgo di Raccolana sul Fella al valico di Nevèa, e poi fino al lago di Raibl, il principe Eugenio, inseguendo nel 1809 gli austriaci e volendo prenderli di fianco, fece riattare tutti i sentieri della vallata, riducendoli atti non solo al passaggio delle truppe, ma pur delle bestie da soma. E fu costruito allora il tratto di larga mulattiera fra il Pian della Sega e il Mostiz, e quindi il sentiero tutto sostenuto da ponti in legname, che sale girando il circo fino al pian di Nevèa. Lavoro di soli tre giorni nel bel mese di maggio; e il 17 le truppe italiane guadagnarono il monte e raggiunsero il Raibl, e fu marcia di vittoria, come per lo stesso sentiero nel 1813 parte dell'esercito italiano compì la sua ritirata, e fu marcia di sconfitta. Ed ecco, siamo sul vasto altipiano di spartiacque. Lo diresti un immenso anfiteatro; tutt'intorno al valico torreggiano i maggiori colossi alpini delle Giulie occidentali, dai pinnacoli di calcari dolomitici e coi fianchi rivestiti di conifere odoranti. In largo pianoro prativo sorge il bellissimo ricovero di Nevèa della Società alpina friulana, ad una altitudine di m. 1150, con ogni comodità di alloggio e di provviste. Qui finalmente è la sosta del riposo: qui ristoro e ogni benessere, dopo la lunghezza del viaggio e il paziente sforzo dell'ascesa. Nella beata beatitudine, nella dolce lassitudine delle membra ci pullula nel cuore la poesia, coi versi del Carducci alla fortunata Ostessa di Gaby:

È verde e fosca l’alpe e limpido e fresco è il mattino,
e traverso gli abeti tremola d’oro il sole....
Ecco le bianche case. La giovane ostessa a la soglia
ride, saluta e mesce lo scintillante vino.


Oh, spettacolo più puro e più meraviglioso, io non vidi mai! In alto è il dominio delle rocce, dei rostri difformi, del biancore niveo. Si direbbe anche il dominio del silenzio, se un vento leggerissimo non facesse stormire gli abeti svettanti, e non ci arrivasse agli orecchi la rauca voce dei sonagli, e il muggir delle mucche nelle malghe vicine. Come la mente è lucida, la volontà affilata, il desiderio intenso, l’ebbrezza orgogliosa e quasi cruda; il sangue fervido nelle arterie e i nervi tesi come archi! Dopo un breve riposo si va attorno nel prato con leggerezza incantevole, con brividi sempre nuovi di energia. Sul tetto del ricovero schiocca al vento la bandiera d’Italia. Moviamo su, al crinale alpino, alla linea di displuvio, seguendo i segnavia sulle lastre attraverso i pascoli. Da questa parte scendono le acque al Raccolana, al Fella, e al Tagliamento e all’Adriatico; da quella al rio del lago di Raibl, e quindi per la Schlitza al Gail, alla Drava, al Danubio, al Mar Nero; attraverso a tanta parte dell’Austria, lungo sponde ungheresi e serbe, bulgare e rumene, fino a quel Ponto Eusino, dove è con Ovidio anche la poesia latina. Il rio Cregnedul, torrente a letto roccioso e di solito asciutto, segna il confine tra l’Austria e l’ Italia. Presso la sua sponda sinistra, sulle due facce irregolari di un grosso macigno, si vedono scolpiti da un lato un leone veneto, dall’altro lo stemma del ducato di Carinzia, e sotto all’uno o all’altro la data 1757. Più oltre, le acque e il paese di Raibl; un bel villaggio tipo tedesco, dalle case pulite, colle finestre ornate di fiori e coi tetti di legno; e un bel laghetto, le cui onde di un verde cupo incantevole scintillano e azzurreggiano. Poco appresso, lungo la sponda sinistra del lago, la strada attraversa un forte di sbarramento, le cui cannoniere sono rivolte verso l’Italia. Nei pressi del Forte è proibito intrattenersi e soprattutto fare rilievi, schizzi e prender fotografie. Questa specie di molosso, che, appena varcato il confine vi ringhia in faccia, spalancando le sue bocche metalliche, indispone il visitatore e gli risveglia dal fondo dell’essere un’acredine muta e provocante. Allora lo sguardo si rifugia sull’alta sella di Nevèa, d’onde pur mo’ scendemmo, e tra lo sdrucio della nuvolaglia, saluta, erta e severa, col sole in fronte, l’Italia madre all’ombra del tricolore. Grida ella agli alpigiani e ai valligiani con le parole del Console ai sudditi suoi nel Comune rustico:

E voi, se l’unno, o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, 1’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà.




Alfredo Grilli 1878-1961, articolo apparso sulla rivista Patria & Colonie (Milano, settembre 1913, num. 9, an. II)

Trattoria F.lli Martina - Via Roma, 38 - 33010 Chiusaforte ( Ud) Italia

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